Indagare e provare a comprendere le origini che giacciono dietro a un tipo di oppressione sociale e politica non è mai cosa semplice. Spesso quando ci scontriamo con episodi di violenza, frutto di un’oppressione sociale reiterata e profondamente radicata, ci limitiamo a reagire dando giudizi morali sull’azione in sé: «è giusto»; «è sbagliato». Questo giudizio, tuttavia, non ci dice niente sulle motivazioni sottese a quel determinato accadimento ed è per questo che risulta necessario provare a ricercare nella cultura e nel passato le concatenazioni di cause ed effetti che hanno portato a una certa condizione di oppressione di una parte della popolazione su di un’altra.
Nello specifico, l’oppressione di genere ha caratterizzato per secoli (e caratterizza ancora oggi, in parte) la società occidentale.
Tra gli anni Sessanta e Settanta del secolo XX si ha l’inizio della cosiddetta “seconda ondata femminista”. È proprio questo il momento in cui, a partire dagli Stati Uniti, si sviluppa un nuovo femminismo radicale che individua la figura femminile come oggetto passivo dominato dall’uomo: le donne prendono coscienza di appartenere alla classe oppressa, la classe dominata.
Se per lungo tempo la donna è stata oggetto passivo e l’uomo soggetto attivo, allora chi ha definito e dominato ogni sfera della vita (dalla politica, alla sociale, alla culturale) è stato proprio l’uomo. Non solo. L’uomo (bianco ed etero) in quanto soggetto attivo è colui che ha delineato, tramite le categorie a lui stesso congeniali, anche il ruolo di chi non apparteneva alla classe dominante, ma ricopriva quello di oggetto.
Ecco, quindi, che si apre tra le femministe di fine anni Sessanta e inizio anni Settanta un nuovo grande quesito: chi è la donna?
La rappresentazione della figura femminile fino a questo momento è data dall’uomo, che l’ha definita per secoli come l’opposto in senso negativo rispetto a sé: la donna è un non uomo, un essere che manca, come ci spiegherà Irigaray in Speculum (1). La nuova risposta è, quindi, tutta da costruire, ripartendo dalle stesse donne che devono definirsi sì come altro dall’uomo, ma un altro finalmente positivo. Per ripartire, però, è necessario, secondo queste femministe settantine, rendere consapevole la società delle origini di questa oppressione radicale che intride da secoli le nostre vite. Le radici vanno rintracciate nel rapporto primordiale uomo-donna: il rapporto sessuale. Esso è il mezzo mediante il quale si è instaurato e si perpetua il potere maschile, che nasce come potere fisico e si sviluppa nella società come potere politico.
«Gli atti sessuali, quindi, sono innanzitutto non atti di piacere o di procreazione, ma atti politici, atti nei quali si perpetua la superiorità maschile sulla donna in tutti i momenti della storia e in tutte le forme istituzionali (la principale è quella della eterosessualità) e con tutti i mezzi (dalle “lusinghe” del “mito” della donna alle “minacce” di violenza sessuale)». (2)
Una delle prime autrici che tratta la rivalutazione della sessualità femminile in rapporto a quella maschile è l’americana Anne Koedt, che nel 1970 pubblica un saggio intitolato Il mito dell’orgasmo vaginale (3).
In questo suo testo l’autrice si pone lo scopo di mettere in risalto come la considerazione comune della sessualità femminile sia legata ad una visione del tutto maschilista, che è stata legittimata, soprattutto durante il corso del Novecento, dalle teorie psicoanalitiche freudiane. Koedt attacca apertamente Freud rispetto alla considerazione della sessualità femminile come strettamente dipendente dall’uomo.
La crescita della donna, infatti, avviene, secondo lo psicanalista, dal passaggio dall’orgasmo clitorideo (tipico della ragazza giovane) all’orgasmo vaginale (ossia l’orgasmo dato dalla penetrazione del fallo). Se la donna non accetta o non riesce a ottenere quest’ultimo tipo di orgasmo è una donna che non è cresciuta del tutto, ma è rimasta ancorata alla fase adolescenziale. Ecco, dunque, che tutto ciò che prescinde dal rapporto eterosessuale classico, tramite penetrazione, viene considerato come fuorviante.
Koedt smentisce le teorie di Freud partendo da una scoperta scientifica di qualche anno prima, secondo cui l’unica reale sede dell’orgasmo femminile sarebbe il clitoride. Stando all’autrice, l’orgasmo vaginale è, in ultima analisi, una falsa credenza della società maschilista (di cui le donne si erano già accorte da sole sicuramente da un bel po’). La sede del piacere femminile è dunque il clitoride, ma, nonostante questo, le donne sono ancora legate a una sessualità scelta come la migliore da altri, ossia dagli uomini, che hanno imposto la propria visione secondo la propria comodità.
Koedt sottolinea che la demolizione di questo “mito” dell’orgasmo vaginale comporti conseguenze particolarmente negative per la visione maschilista, in quanto la donna si rende conto di potersi bastare da sé e di non dover raggiungere forzatamente qualcosa che non ha.
Tale mancanza, insomma, non corrisponde più a una negatività, ma a una semplice diversità: la donna non manca di nulla (non manca di un fallo, non manca di un orgasmo vaginale), ma, più semplicemente, possiede altro.
Se la donna può bastarsi da sola, però, allora l’uomo diventerebbe per lei inutile dal punto di vista sessuale o, comunque, dovrebbe iniziare a pensare a lei e a ciò che a lei piace, togliendosi dalla centralità nella quale si era posto. Secondo Koedt la consapevolezza della fandonia dell’orgasmo vaginale da parte della donna coincide con la sua liberazione dall’uomo, ma tale liberazione non rimane unicamente sul piano sessuale.
Proprio l’anno successivo alla pubblicazione de Il mito dell’orgasmo vaginale, in Italia viene pubblicato un saggio dal titolo ancora più provocatorio: Sputiamo su Hegel. La donna clitoridea e la donna vaginale, dell’autrice femminista Carla Lonzi (4). Lonzi, in stretta relazione con le teorie di Koedt, continua a criticare la visione della sessualità maschilista e la conseguente necessità della liberazione della donna proiettando questa visione anche sul piano sociale e politico.
La donna vaginale di Lonzi non è solo la donna che sottostà alla sessualità maschilista, ma anche colei che è prigioniera degli schemi sociali patriarcali in ogni ambito della sua vita; al contrario, la donna clitoridea è colei che prende coscienza della subordinazione sessista e inizia il suo processo di liberazione.
Il femminismo di inizio anni Settanta si rivela un grande momento di cambiamento e non solo sul piano della rivalutazione della figura della donna, come si potrebbe pensare. Fu l’inizio di un femminismo realmente rivoluzionario, perché è riuscito a svelare i limiti del sistema occidentale classico, un sistema fallologocentrico ancora profondamente ancorato a quello dualistico che parte da Platone e passa per Cartesio e Freud. Finalmente viene rivelato che il soggetto della filosofia, della politica e della società fino a quel momento è stato l’uomo, etero e bianco ed è quindi ora di far emergere nuovi soggetti. È l’ora della donna clitoridea, per utilizzare il termine lonziano, un soggetto che non accetta più di essere la parte sottomessa, ma che decide di liberare se stessa e la propria sessualità, per rilanciarsi come soggetto interamente autonomo.
(1) L. Irigaray, Speculum. Dell’altro in quanto donna, Feltrinelli, Milano,2017
(2) A. Cavarero, F. Restaino, Le filosofie femministe, Bruno Mondadori, 2002.
(3) A. Koedt, The Myth of the Vaginal Orgasm, in M. Schneir, The Vintage Book of Feminism, Vintage, Londra, 1995.
(4) C. Lonzi, Sputiamo su Hegel. La donna clitoridea e la donna vaginale, Rivolta Femminile, Milano, 1974.
Foto by Crawford Jolly su Unsplash.
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