“[…] il controllo potrà anche garantirci la sopravvivenza, ma per vivere abbiamo bisogno della fiducia”, si chiude così il saggio La società della fiducia. Da Platone a Whatsapp di Antonio Sgobba edito per Il Saggiatore; un testo che attraverso le vicende dall’odierna pandemia di Covid-19 ci conduce alle radici della cultura occidentale nell’Atene del V secolo, dalle pestilenze vissute da Tucidide, fino all’analisi del tema della fiducia affrontato dal Socrate platonico e da Aristotele.
Non manca certo di indagare il potere delle fake news, notizie fasulle che hanno sempre contraddistinto i momenti di crisi politica dei nostri stati, dalla Francia di Luigi XVIII fino ai giorni nostri. Confrontandosi con studiosi come Umberto Eco, Amartya Sen, Martin Hollis, Lyda Judson Hanifan, Hilary Putnam, Karl Polanyi e Onora O’neill ci aiuta a tratteggiare una continuità storica e sociale tra il nostro presente, vissuto con inquietudine e smarrimento, e le vicende che il nostro passato può raccontarci, in qualche modo svelando cose di noi che, forse, nemmeno immaginavamo.
Il nostro tempo, si dice, è il tempo della sfiducia; siamo tutti zeppi di incertezze, quasi ci fosse caduto addosso, improvvisamente, un frenetico acquazzone di dubbi. Ma come siamo giunti fino a qui?
Quando abbiamo iniziato a credere di non poterci più fidare delle istituzioni e dei media? Tutte queste domande però, presuppongono un tempo diverso, un El Dorado della fiducia e della pace sociale, un tempo che – seguendo Sgobba – scopriamo inverosimile. La fiducia come ogni sentimento è una sorta di cadeau, di dono sociale, che si struttura tra i cittadini e le istituzioni con relazioni, fatica e costanza e che come ogni sentimento è soggetto a mutamenti essendo condizionato di volta in volta da attori, contesti e credenze.
Durante un’epidemia come l’attuale quanto può contare la fiducia? In una società tecnologicamente avanzata quali rischi sono legati alla sua assenza? Sono queste alcune delle tante domande a cui l’autore darà risposta, una risposta che non manca il bersaglio: riportare l’attenzione sulla democrazia, sui valori di reciprocità e di associazione che ci permettono di vivere, e non meramente di sopravvivere.
È ormai evidente che vi è una dinamica centrifuga, dettata dal moltiplicarsi dei mezzi di informazione e di informazioni in contrasto tra loro, che non permette un confronto efficiente tra i cittadini e le istituzioni, né tra i cittadini stessi e spesso – sfortunatamente – anche fra le istituzioni la coesione sociale si sgretola a vista d’occhio.
Quando in un contesto così caotico appare la minaccia di un’epidemia la già scarsa fiducia rischia di collassare e con questa anche ogni possibilità di uscire dalla situazione di emergenza; il circolo vizioso della fiducia – dove i cittadini faticano a credere alle istituzioni e, viceversa, queste stentano a fidarsi dei cittadini – può portare a misure di controllo con derive autoritarie, a comportamenti irresponsabili da parte dei cittadini e così via, in un loop infinito.
Sapere come agiscono le piattaforme sulle quali interagiamo e reperiamo informazioni può allora essere un prezioso aiuto per superare questo sentore di manipolazione; i social network usano algoritmi che, ricavando i nostri interessi dalle interazioni che abbiamo sulla piattaforma, ci rimandano non solo gli stessi contenuti che abbiamo già scelto tra le nostre preferenze ma, soprattutto, ci relegheranno in una prospettiva necessariamente parziale rispetto agli stessi contenuti. Parlare di “bolle epistemiche” e “camere dell’eco” è il mezzo con il quale possiamo comprendere come mai, difficilmente, ci troveremo smentiti all’interno del nostro profilo Facebook.
In un mondo sempre connesso, reperiamo informazioni volenti o nolenti, ma difficilmente – da soli – saremo sempre in grado di distinguere tra verità e falsità, perché la logica che tende ad imporsi non è quella della ricerca filosofica tesa alla verità tanto amata dai Greci, ma piuttosto un flusso continuo, velocissimo e a forte impatto emotivo di informazioni contraddittorie tra loro, dove contano più le reazioni immediate, le convinzioni personali che non i fatti e la riflessione.
Ma se è vero che la verità non ha nessun potere salvifico, che potere hanno le notizie false?
Quello di minare il “capitale sociale”, per citare Lyda Hanifan, e cioè quell’enorme complesso di predisposizioni sociali tra individui quali la fiducia, l’amicizia, la buona volontà, il senso di appartenenza… in una parola la coesione sociale all’interno di una comunità più estesa, come lo stato. Ma una società priva di fiducia è pur sempre meno efficiente di una società cooperativa e sarebbe insensato ridurre le nostre vite a meri scambi materiali: non siamo solo consumatori, siamo soprattutto – a scapito delle litanie capitalistiche – animali sociali, per concordare con Aristotele. Non basiamo i nostri rapporti su semplici interessi egoistici, siamo propensi a impegnarci e a fidarci, a fondare le nostre relazioni sulla reciprocità, più che al pretto guadagno.
Certo, belle parole, ma come fidarsi? Il problema della fiducia si è ampliato con le nuove tecnologie, con l’aumento dei contenuti e delle falsità, ma non è certo una questione nuova. Forse la vera chiave di svolta potrebbe essere quella di imparare a fidarsi di chi si mostra affidabile, più che di chi ci sembra affine a noi a scapito di ogni evidenza; è richiesta un’attitudine alla ricerca, allo scovare la verità sotto la mole di informazioni che ci bombardano, in altre parole uno sguardo vigile da parte di tutti noi se davvero crediamo di meritare fiducia a nostra volta.
Da parte loro, gli esperti e le autorità, devono impegnarsi a creare un terreno comune con i cittadini, devono spogliarsi del mantello della neutralità presentandosi come esseri essenzialmente prospettici – come ognuno di noi – riconoscendo che le loro parole, i fatti che presentano, portano con sé un bagaglio sociale di valori personale e contestuale.
Schierarsi a favore dei valori e non solo dei fatti, presentarsi umani con tutti i pro e i contro, equivarrebbe a riallacciare la scienza, l’informazione, con le sue implicazioni, coinvolgendo i cittadini senza farli assistere passivi ad una rappresentazione per loro incomprensibile e distante.
L’invito di Sgobba è quello di ripensare il nostro presente cercando di inquadrarlo all’interno della storia, come un momento di crisi che può essere affrontato, guardando il futuro attraverso la lente della fiducia – la parola chiave del suo libro – e prendendo parte attivamente all’impegno sociale e politico che è richiesto nella relazione di affidabilità, imprescindibile per qualsivoglia comunità.
Antonio Sgobba, La società della fiducia. Da Platone a Whatsapp, 2020, Il Saggiatore, Milano.
Grazie a Il Saggiatore!
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