Quando si osserva qualcosa da molto vicino, si mettono bene a fuoco i dettagli, ma l’insieme sfugge. Lo stesso accade quando si osserva il proprio tempo: non c’è distanza, gli eventi sono qui e ora, ed è difficile comprenderli in un quadro più ampio che dia loro del senso. Per capire, bisogna essere dei visionari e tale si dimostra, ancora una volta, Judith Butler.
La forza della non violenza è un saggio importante, in un periodo storico che ha tutta l’aria di essere pre-rivoluzionario.
Il paradigma dominante, a mano a mano, cede, e il dissenso, liberatosi con forza prorompente, pretende dei riscontri in campo politico.
Sebbene non sia tollerabile che certe voci vengano fatte tacere, questo accade di continuo. Non solo con l’oscuramento del “diverso” a livello di rappresentazione, ma anche e soprattutto con la negazione di credibilità che viene destinata alle minoranze che reclamano i propri inalienabili diritti.
In campo, entra il dibattito sulla violenza.
«Talvolta gli stati e le istituzioni pubbliche definiscono “violente” molte espressioni di dissenso politico, o di opposizione a questa o quella autorità statale o istituzionale. Dimostrazioni pubbliche, occupazioni, assembramenti, boicottaggi, scioperi. […] Quando gli stati o le istituzioni compiono questa operazione, tentano di rinominare pratiche nonviolente come violente, conducendo una battaglia politica a livello semantico.» (1)
Butler riflette sul concetto semantico di violenza e sulla sua controparte: la nonviolenza.
L’una è inclusa nell’altra: entrambe rispondono a obblighi e dettami etici che devono essere rivisti o addirittura smantellati. Soprattutto, devono essere slegate dall’individualismo.
L’individuo come tale, per Butler, è una costruzione fittizia: lo stato di natura hobbesiano, secondo cui siamo venuti al mondo autonomi, e quindi egoisti, è un mito. La realtà sta nella dipendenza dagli altri, nell’interconnessione. La violenza non è l’atto di uno contro uno: questo modello va trasceso, così da far emergere le violenze strutturali, simboliche e istituzionali. Diversamente, continuerà a essere legittimo che gli Stati e le istituzioni utilizzino la violenza in nome dell’autodifesa.
Considerare l’atto di violenza e, di rimando, l’impegno alla nonviolenza solo come atti individuali limita la violenza all’autodifesa, senza prendere in considerazione i significati che questi atti del sé individuale — sia esso persona, movimento o nazione — delineano a un livello sociale più ampio. Violenza e nonviolenza assumono valore non individualmente, ma in una rete di relazioni. La nonviolenza militante, in particolare, si configura come resistenza alla violenza sistemica che nega il valore di certe vite e non altre.
La forza della nonviolenza ci costringe a riflettere sulla marginalizzazione, sul razzismo, sul genere, sui pulsanti movimenti per i diritti civili.
È un progetto politico, di rivoluzione, nel quale l’immaginazione gioca un ruolo fondamentale.
Per sovvertire le categorie esistenti e opprimenti, Butler invita i lettori alla mania: non si tratta di pura follia, ma di pensare oltre i limiti che costituiscono la condizione prevalente di violenza.
(1) J. Butler, La forza della nonviolenza, Nottetempo, Milano, 2020.
Grazie a Nottetempo!
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