«I cambiamenti climatici rappresentano la più grande crisi che l’umanità si sia mai trovata davanti e si tratta di una crisi che saremo chiamati a risolvere e contemporaneamente ad affrontare da soli. Non possiamo mantenere il tipo di alimentazione cui siamo abituati. Dobbiamo rinunciare ad alcune abitudini alimentari oppure rinunciare al pianeta. La scelta è questa, netta e drammatica. Dov’eri quando hai preso la tua decisione?» (1).
Così scrive Jonathan Safran Foer in una delle pagine più intense di Possiamo salvare il mondo prima di cena. Perché il clima siamo noi, libro edito in Italia da Guanda uscito lo scorso anno. Erano i mesi del “Fridays for future”, la piccola, dolce ma tostissima Greta Thunberg e le sue idee erano uno degli argomenti più dibattuti del momento. Purtroppo, buona parte della popolazione guardava con indifferenza e/o irritazione questi giovani riversati per le strade, che “saltavano la scuola per salvare il pianeta”.
Pur non pronunciandosi specificatamente a riguardo, Foer centra buona parte del proprio libro sul meccanismo che si innesca negli individui quando si parla dei cambiamenti climatici e delle devastanti conseguenze che avranno sul pianeta.
Non solo i negazionisti – che non sono poi così tanti – ma la maggior parte delle persone conosce l’argomento e ha idea di quello che sta succedendo, ma nasconde la testa sotto la sabbia. Accettiamo come realtà fattuale la distruzione del nostro pianeta, ma non ci crediamo veramente, perché se fosse così ne sorgerebbe, di conseguenza, un urgente imperativo etico (2). Per spiegare meglio la cosa, Foer fa un esempio legato ad un argomento a lui “caro”: l’olocausto ebraico.
Nel 1942 il partigiano polacco Karski arriva fino agli Stati Uniti per riferire i fatti terribili che stanno accadendo in Europa al giudice della corte suprema Felix Frankfurter, a sua volta ebreo. Frankfurter, dopo aver ascoltato quella sconvolgente narrazione, dice a Karski che non gli crede. Il giudice non pensa stia mentendo: la sua mente e il suo cuore non sono fatti per accettare le cose terribili riferite dal giovane partigiano. Non riesce, insomma, a credere alla verità, perché troppo terribile. Per questo, così come Frankfurter decide di non far nulla per fermare l’olocausto, anche noi, spesso, non facciamo assolutamente niente per arrestare le devastazioni del cambiamento climatico.
Non agiamo perché per cambiare il corso delle cose sono necessari dei sacrifici.
In particolare, per Foer, è fondamentale rivedere il nostro modo di mangiare perché «l’allevamento è una delle/la causa principale dei cambiamenti climatici» (3). Visto il peso della produzione della carne sul clima, non è sufficiente compiere le classiche azioni che ci dicono di fare, come la raccolta differenziata, viaggiare meno in auto, spegnere le luci, chiudere l’acqua, ecc. Perché ci sia davvero un mutamento, è imprescindibile diminuire drasticamente il consumo di carne e prodotti animali.
Attenzione, però, a credere che Foer sia un vegano convinto, perché non è così. Con una franchezza apprezzabile, ammette di aver mangiato saltuariamente carne e derivati, nonostante il suo libro Se niente importa – Perché mangiamo gli animali?. Confessa con candore di averne costantemente voglia: perché è abitudine, perché il sapore della carne è un sapore che fa parte, sin dall’infanzia, della nostra vita. Nonostante ciò, non tornerebbe mai indietro: un “sacrificio” per qualcosa di più grande.
A chi risulta difficile eliminare carne e derivati, come anticipato dal titolo, il “compromesso” suggerito da Foer è semplice e applicabile a tutti: rinunciarvi prima di cena. Basterebbe davvero così poco. Facile dire che non mangiare carne non conti nulla e che astenervisi è del tutto inutile.
Forse è un mito insistere sull’importanza delle azioni individuali per un cambiamento globale, ma è disfattista rinunciare a far qualcosa a priori (4).
Come scrive Foer nelle sue pagine estremamente filosofiche, non vuole spiegare in maniera esaustiva i cambiamenti climatici, perché a ciò pensa la scienza, ma vuole esplorare «una decisione che la crisi del nostro pianeta ci impone di prendere». Rimarcando temi a noi noti, riprende l’etimologia latina di “decisione”, cioè deciděre, che significa “tagliare via”. Quando scegliamo qualcosa, perdiamo qualcos’altro. Imboccando quella determinata strada, ne trascuriamo un’altra. Quando scegliamo, però, ci definiamo e rileviamo ciò che siamo (5), combattiamo per ciò che è giusto, tagliando fuori ciò che è sbagliato (6).
Possiamo fingere di non vedere, constatare in maniera passiva che c’è il cambiamento climatico: quando però le generazioni future subiranno concretamente i disastri che questo porta, saremo del tutto uguali ai negazionisti.
Se non agiamo ora, anche nel nostro piccolo, saremo complici di questo disastro, le cui conseguenze non sono forse così immediate, ma delle quali c’è sempre più evidenza.
(2) Cfr. Ivi, p. 28.
(3) Cfr. Ivi, p. 108.
(4) Cfr. Ivi, p. 221.
(5) Cfr. Ivi, p. 84.
(6) Cfr. Ivi, p. 226.
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