Etty Hillesum e l’esperienza del raccontarsi
Raccontarsi non è mai semplice. A volte non è semplice conservare l’autenticità dei ricordi, altre volte la memoria ferisce più di una spada.
Esistono diversi modi per lasciare bianco su nero la propria esperienza: esempi sono l’autobiografia, il diario, le confessioni e la memorialistica.
Sono metodi già noti alla filosofia, si pensi alle Confessioni di Agostino o ai Saggi di Montaigne, quest’ultimo innovativo soprattutto per l’idea di se stessi come oggetto di studio e della propria scrittura.
Ma perché scrivere di sé?
Lavorando in superficie potremmo dire inizialmente per lasciare una traccia di noi, della nostra presenza: tracciare un segno per paura di essere dimenticate e dimenticati.
Ma scavando più a fondo le tematiche sono diverse. Importante notare come Sara Gomel ci introduca nel mondo di ciò che è molto più di quello che in troppi considerano uno strumento infantile.
Esther (Etty) Hillesum nasce nel 1914 a Middelburg e scrive il suo diario tra il 1941 e il 1943, durante l’occupazione nazista dell’Olanda. La storia – che potrebbe sembrarci simile a quella di Anna Frank – è in realtà differente soprattutto per la produzione.
Entrambe hanno creato una narrazione di loro stesse e delle loro vite ma per motivazioni e con obiettivi differenti.
Etty inizia a scrivere proprio incoraggiata da Julius Spier, allievo di Jung, e mano a mano la terapia delle parole diviene un vero e proprio momento per scavare dentro a se stessa e dentro alle persone che la circondavano.
Le descrizioni così dettagliate delle persone che amava, il proprio rapporto con Dio, ma anche i tratti del nemico – lo stesso da cui aveva capito che non poteva alienarsi, di cui non poteva ignorare il lato umano.
«il diario […] mostra chi scrive in tutte le sue fragilità, nelle sue piccolezze, nelle sue insicurezze. Non c’è nel diario la grandezza della personalità e non può esserci, poiché dall’analisi minuziosa della scrittura diaristica generalmente l’io esce annientato nei suoi contorni. C’è quindi il rischio di perdersi del tutto in un diario, di cercarsi tanto profondamente da non riuscire più a cogliere chi si è» (1)
La forma del diario nella sua accezione reale e terapeutica, dunque, è la dimensione in cui ci accompagna Gomel. In un viaggio dove tutti i punti più profondi, più intensi ma anche più critici vengono toccati e con Etty possiamo iniziare a scoprire qualcosa di più su di noi.
Grazie Castelvecchi!
(1) p. 162
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