«Il matrimonio è il destino imposto per tradizione alla donna dalla società. La maggior parte delle donne, ancora oggi, è sposata, lo è stata, si prepara a esserlo o soffre di non esserlo» (1) sostiene De Beauvoir ne Il secondo sesso, all’inizio del capitolo in cui si propone di analizzare l’istituzione matrimoniale.
Per la filosofa, è nel momento in cui nelle comunità agricole fa la sua comparsa il concetto di proprietà privata che cambiano le sorti delle donne: «così quando l’uomo acquista il senso della proprietà del suolo, rivendica anche la proprietà della donna» (2). Per l’uomo diventa di fondamentale importanza avere un figlio, sangue del proprio sangue, a cui trasmettere i propri beni. La donna si ritrova così alienata: non solo non ha per lungo tempo potuto ereditare beni ma è stata a lungo essa stessa un bene, prima del patrimonio del padre e poi di quello del marito. Da lei si pretende verginità prima e assoluta fedeltà poi, poiché niente sarebbe peggiore per un uomo di tramandare le sue proprietà a un figlio non proprio.
Secondo De Beauvoir l’istituzione del matrimonio così pensata non solo priva la donna di ogni libertà ma, legando il suo destino unicamente a quello dell’uomo che sposa, impedisce alle donne di fare rete tra loro: solidarizzare diventa più complicato, visto che il loro status sociale veniva definito in virtù dell’uomo a cui si era legate, anziché come persona. Inoltre l’estrema stigmatizzazione che subivano le donne che non rientravano in canoni dettati dalla società (a meno che non si trattasse di donne consacrate) rendeva il matrimonio l’unico modo possibile per la donna per occupare un posto accettabile nella comunità.
Non si può prescindere dal conoscere l’origine di un’istituzione per capirla a fondo e scegliere se vi si voglia aderire, ma occorre anche chiedersi quale sia lo stato attuale delle cose.
«Si aprono alle donne le fabbriche, gli uffici, le Facoltà, ma si continua a considerare per loro il matrimonio come la carriera più onorevole […]. Tutto incoraggia le giovani ad attendere dal “principe azzurro” ricchezza e felicità, piuttosto che tentarne da sola la difficile conquista.» (3)
Nonostante De Beauvoir abbia scritto queste parole nella prima metà del secolo scorso, se guardo ai riferimenti culturali con cui sono cresciuta non posso non pensare che questo sia vero ancora oggi, almeno per la mia generazione di quasi trentenni. Quasi tutte le fiabe che mi hanno letto da piccola prevedevano un lieto fine basato sul matrimonio, così come tutti i film animati con protagoniste le principesse.
Sin dall’asilo, la prima cosa che mi veniva chiesta era se avessi un “fidanzatino”, cosa ben più importante di come andassi a scuola o se avessi molti amici. Ho guardato programmi incentrati sulla ricerca dell’abito da sposa perfetto nei momenti di solitudine e tristezza e ho immaginato con le mie amiche come sarebbe stato il giorno del mio matrimonio ben prima di trovare un uomo per cui valesse la pena pianificare un evento del genere nei minimi dettagli: il matrimonio era una cosa che ci sarebbe stata nella mia vita, punto e basta. Ed è con rammarico che ammetto di aver usato la parola “zitella” come insulto nei confronti di donne che mi sembravano acide o antipatiche.
Ho iniziato a mettere in discussione tutto questo solo grazie ai miei studi sul femminismo. «Saremo meno femministe se desidereremo l’abito bianco? Saremo meno progressiste se piangeremo mentre la nostra amica percorre la navata?» (4) si chiedono Giulia Cuter e Giulia Perona in Le ragazze stanno bene e me lo chiedo anche io.
Nel momento in cui, firmando un contratto di lavoro, ho trovato sul modulo la dicitura “cognome da coniugata” non ho potuto non pensare a «l’ostinata sopravvivenza, nella nuova civiltà che sta sbocciando, delle tradizioni più antiche» (5) e a chiedermi se non sia meglio non aderire e rifiutare questa istituzione, piuttosto che modernizzarla. È in un altro testo femminista di recente pubblicazione che ne ho ritrovato il senso. «In definitiva, sposarsi è un privilegio. E io ne ho approfittato» (6) sostiene Chiara Sfregola e questo io non l’avevo proprio considerato.
Chiusa nel mio punto di vista di donna eterosessuale non mi rendevo conto che quello che la società mi ha sempre detto di dover fare è allo stesso tempo ciò che ha impedito a molti di fare. «Ho creduto per anni di lottare per l’uguaglianza e mi ritrovo adesso consapevole di non aver lottato affatto per l’uguaglianza ma per l’estensione di un privilegio. Ciò di cui prima potevano beneficiare le coppie etero adesso è consentito (con dei limiti) alle coppie dello stesso sesso» (7) sostiene Sfregola.
Nella confusione generata dalla società che continua a propinare modelli patriarcali di femminilità si perde di vista quello che il matrimonio è: la condivisione di alcuni diritti.
«Siccome sono una donna si aspettano che io aspiri al matrimonio. Si aspettano che io compia le scelte sulla mia vita tenendo sempre a mente che il matrimonio è la più importante» sottolinea Chimamanda Ngozi Adichie. «A una donna che a una certa età non è sposata, la nostra società insegna a vederlo come un profondo fallimento personale. E di un uomo di una certa età che non è sposato, noi pensiamo semplicemente che non è ancora arrivato a fare la sua scelta» (8). Ed è questo che impedisce di riflettere serenamente sull’istituzione in quanto tale, sulla sua essenza e sui suoi risvolti più pratici. Adichie sostiene che, essendo esseri sociali e internalizzando credenze e idee tramite la socializzazione, non possiamo semplicemente dire che ciò non ci riguarda.
Riguardo il matrimonio, dunque, come donne e femministe, quali opzioni abbiamo?
Se ha ragione De Beauvoir a dire che «le donne non hanno torto quando rifiutano le regole che vigono nel mondo; poiché furono gli uomini a crearle, senza il loro concorso» (9), potremmo rifiutare l’istituzione in toto. Oppure potremmo prendere parte a questa istituzione e cambiarla dal di dentro, risignificarla, darle un nuovo valore, nuove regole e nuove modalità facendo in modo che faccia stare bene ogni persona.
(1) Simone De Beauvoir, Il secondo sesso, Il Saggiatore, Milano, 2016, p.408.
(2) Ivi, p. 95.
(3) Ivi, p. 157.
(4) Giulia Cuter e Giulia Perona, Le ragazze stanno bene, Harper Collins, Milano, 2020, p.119.
(5) Simone De Beauvoir, Il secondo sesso, Il Saggiatore, Milano, 2016, p.408.
(6) Chiara Sfregola, Signorina, Fandango, Roma, 2020, p.100.
(7) Ivi, p.100.
(8) Chimamanda Ngozi Adichie, We should all be feminists, discorso tenuto in occasione del TedTalk .
Testo originale:
«Because I am female, I’m expected to aspire to marriage; I am expected to make my life choices always keeping in mind that marriage is the most important»
«A woman at a certain age who is unmarried, our society teaches her to see it as a deep, personal failure. And a man at a certain age who is unmarried, we just think he hasn’t come around to making his pick».(9) Simone De Beauvoir, Il secondo sesso, Il Saggiatore, Milano, 2016, p. 418.
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