Tra guerre, pandemia e disastri ambientali dovuti ai cambiamenti climatici – che notiamo così prepotentemente negli ultimi anni – e dopo decenni di benessere con una vita media sempre in crescita, ci siamo dovuti violentemente ricordare della brevità e insicurezza delle nostre vite.
L’essere umano da sempre vorrebbe rendere tutto eterno e lo fa in mille modi: tentando di trovare cure alle malattie, creando opere d’arte e edifici spettacolari, modificando i cicli di ciò che gli sta attorno, cercando nuove terre, riproducendosi. In particolare, ci sforziamo al massimo per mantenere intatto ciò che è bello e che ci fa stare bene.
Davanti a certi accadimenti, però, pare che tutto questo sia vano. Nonostante ciò, ciclicamente superiamo questi momenti oscuri, continuiamo a vivere, ci adattiamo per far proseguire la nostra specie. D’altronde questa è la natura e noi ne facciamo parte, anche se – con la nostra smania di essere superiori – a volte ce ne dimentichiamo.
Se le riflessioni appena esposte possono sembrare quelle di un poeta romantico sulla vetta di una montagna sull’orlo del precipizio, significa che sono sempre attuali: fanno parte di quelle questioni esistenziali che l’umanità si pone dalle sue origini.
Ci sono tanti contributi e punti di vista diversi a riguardo, ma non tutti forse conoscono le considerazioni di uno dei più grandi pensatori della storia dell’umanità (che non chiamiamo “filosofo” per non farlo arrabbiare): Sigmund Freud.
Il padre della psicoanalisi, infatti, nel saggio Vergänglichkeit, scritto nel 1915 per la Società goethiana berlinese, sorprende facendo una riflessione quasi poetica e ispirata sulla caducità (1).
Non siamo abituati a un Freud così: lo studioso è di solito rigoroso, schietto, obiettivo e mostra la sua formazione biologica e scientifica. Nel saggio Caducità pare invece, in certe parti e soprattutto sul finale, un letterato e notiamo un profondo coinvolgimento emotivo.
Nello scritto il pensatore austriaco parla dei due atteggiamenti tipici delle persone quando si rendono conto della finitezza del tutto: uno è il tedio, ossia l’accettazione passiva, mentre l’altro è la rabbia e un temperamento rivoltoso. In particolare, chi si ribella a questo dato di fatto, cioè che tutto è destinato a perire, non accetta che quello che c’è di bello – come le meraviglie della natura e dell’arte e le cose piacevoli che proviamo – possa terminare da un momento all’altro. Chi la pensa così ha spesso una smania di eternità e nega, secondo Freud, una realtà evidente che è quindi innegabile, seppur dolorosa ed estremamente triste.
Lo psicoanalista, però, parendo quasi un pensatore di filosofia estetica (definizione che non apprezzerebbe), sottolinea che non dobbiamo pensare che la caducità diminuisca il valore delle cose belle, non lo intacca e, anzi, lo aumenta.
Nonostante ciò, Freud ammette, o perlomeno fa capire, che non è facile accettare questo e ne dà una spiegazione psicologica prima e a tutti gli effetti psicanalitica poi, legata al suo concetto di lutto. Difatti, «poiché l’anima (2) rifugge istintivamente da tutto ciò che è doloroso, essi [chi si ribella contro la caducità] avvertivano nel loro godimento del bello l’interferenza perturbatrice del pensiero della sua caducità» (3).
Quest’ultimo concetto è legato al fatto che «la libido si aggrappa ai suoi oggetti e non vuole rinunciare a quelli perduti […]. Questo è dunque il lutto» (4).
Ecco che Freud chiarisce perché è difficile accettare che le cose belle possano scomparire: la spiegazione è da ritrovarsi nel nostro inconscio ed è, quindi, tutt’altro che poetica. È una motivazione fondamentalmente biologica legata alla conformazione del nostro Io.
Nulla di nuovo per chi conosce lo psicoanalista, insomma. Più o meno il solito vecchio burbero Freud fino a qui. Ecco, però, che il paragrafo finale dello scritto sorprende ed emoziona, oggi come allora.
Lo fa perché il pensatore lo apre piazzandoci come un macigno la guerra. Ricordiamo che il saggio è scritto proprio nel novembre 1915.
La guerra viene descritta da Freud come ciò che mostra la nostra enorme precarietà e come una forza annientatrice che distrugge tutto, non solo la bellezza – rappresentata primariamente dall’arte –, ma anche gli ideali più preziosi a cui è giunto l’uomo, tra cui «il superamento delle differenze tra popoli e razze» (5). Il conflitto bellico mette «a nudo la nostra vita pulsionale» (6) e scatena «gli spiriti malvagi in noi» (7).
A questo punto Freud ritorna, quindi, sul concetto di lutto: quando si perde qualcosa di caro, la libido viene lasciata libera e si cerca, di conseguenza, qualche altro oggetto verso cui reindirizzarla. Nel caso del primo conflitto mondiale, secondo il pensatore, la libido «ha investito ciò che ci è rimasto […] l’amor di patria, la sollecitudine per il nostro prossimo e l’orgoglio per ciò che ci è comune» (8).
Che bel concetto, no? Il burbero e freddo Freud sta parlando della solidarietà che si crea nei momenti bui, dell’aiuto reciproco.
Sì, forse per lui è solo un nuovo investimento pulsionale, un fatto determinato e biologico. È pur sempre un pensiero bello, qualcosa che ci dà speranza. Anche ora che vediamo le orrende conseguenze della guerra, ma anche quelle della pandemia e del cambiamento climatico. La conclusione del saggio, però, ce ne fornisce ancora di più; egli dice infatti che «quando il lutto sarà superato, apparirà che la nostra alta considerazione dei beni della civiltà non ha sofferto della nostra fragilità. Torneremo a ricostruire tutto ciò che la guerra ha distrutto, forse su un fondamento più solido e duraturo di prima» (9).
Alla luce del fatto che queste parole sono scritte nel 1915 e di lì a qualche anno è scoppiata la Seconda guerra mondiale, potremmo dire che Freud è un illuso. Anche lui probabilmente sta vivendo, come i suoi contemporanei, il processo del lutto.
Dopo le guerre, però, abbiamo anche raggiunto il boom e siamo entrati per anni – almeno noi paesi “sviluppati” – in un profondo benessere fatto di godimento puro verso il bello. Freud, allora, a modo suo, ci sta dicendo di non perdere la speranza. Anche se le prospettive sono oggettivamente orribili, anche se tutto pare prossimo a perire.
(1) In S. Freud, Saggi sull’arte, la letteratura e il linguaggio, Torino, Bollati Boringhieri, 1991, pp. 219-222.
(2) Notare come il termine sia fuori dal linguaggio freudiano a cui siamo abituati solitamente.
(3) S. Freud, Saggi sull’arte, la letteratura e il linguaggio, Torino, Bollati Boringhieri, 1991, p. 220.
(4) Ibidem.
(5) Ivi, p. 221.
(6) Ibidem.
(7) Ibidem. Anche questo termine poco freudiano, ma ricordiamoci che è un saggio di ispirazione goethiana!
(8) Ibidem.
(9) Ivi, p. 222.
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