Carl Nilsson Linneaus, meglio noto come Linneo, nel 1735 introdusse la nomenclatura binomiale e con essa la classe dei mammalia; gli animali raggruppati entro questa classe avevano in comune – secondo Linneo – una particolarità: possedevano le ghiandole mammarie.
Tuttavia, una questione andava a smentire la presunta naturalezza del nome dato a questa classe: la caratteristica che voleva essere usata come criterio per distinguere i mammiferi dal resto degli animali – il fatto cioè di avere delle ghiandole secernenti latte – è comune solo alla metà dei membri, esattamente la metà femminile.
Appare quindi una scelta particolare quella di chiamare “mammalia” anche i maschi privi di ghiandole e, sembra ancor più sorprendente se pensiamo che il significato della parola latina “mammae” si riferisce al grido infantile “mamma” che suggerisce la ricerca di nutrimento, facoltà presente – ancora – solo nelle madri.
Chiamando questa classe di animali “mammiferi”, Linneo stava schierandosi dal lato moralista di una discussione che nel XVII secolo era ben in vista, quella dell’usanza comune di assumere delle balie per l’allattamento dei figli, evitando alla madre l’incombenza del loro nutrimento nei mesi precedenti il loro svezzamento.
Un altro caso di moralismi e preconcetti insiti nella scienza lo possiamo trovare in Jean-Emmanuel Gilbert, un medico francese che nel 1770 invitava le donne a osservare gli animali per apprendere i doveri di cura e abnegazione insiti nell’istinto materno comune a tutti gli animali di sesso femminile.
Linneo e Gilbert, implicitamente, sostenevano che la donna in quanto mammifero doveva per natura allattare e, per converso, allontanarsi dai doveri istintuali tramite le balie era commettere un atto immorale. Questo essenzialismo – il ridurre cioè un organismo a un’unica facoltà o caratteristica – disegna una donna completamente assorbita dall’atto riproduttivo e lungi dall’essere un pregiudizio dei tempi passati, ritroviamo affermazioni riduzionistiche anche in Charles Darwin, il padre della teoria dell’evoluzione, che condizionato dalla visione di Albert Spencer, dichiara insieme a quest’ultimo quanto sia limitato lo sviluppo intellettivo del genere femminile.
La causa di questo scarto rispetto alla controparte maschile è, secondo i due autori, da ricercare nella biologia; la donna come mammifero è naturalmente strutturata in modo da ovulare, gestare, partorire e allattare.
Tutti questi processi si tradurrebbero in un dispendio di energia enorme che non lascerebbe risorse utili da destinare all’evoluzione di cervello e muscoli. Da qui l’inutilità dell’istruzione femminile e l’ammissione della superiorità maschile a livello biologico, politico e sociale.
Questo esempio di fallacia naturalistica – osservare la natura non per descrivere come si comportino le femmine, ma per confermare i nostri preconcetti morali sul che cosa significhi essere una madre – permane anche oggigiorno quando, ad esempio, sentiamo parlare di una predisposizione naturale delle donne alla riproduzione e alla maternità, o quando crediamo che una madre debba sacrificarsi sempre e comunque per i figli; ma com’è la maternità nel regno animale?
In natura la maternità ha delle caratteristiche tutt’altro che fisse e raramente collima con la visione della tradizione occidentale che la vorrebbe votata al sacrificio.
Troviamo uccelli che scelgono quante uova covare e in quali momenti a seconda delle risorse e opportunità che la madre si trova ad avere in quel preciso momento, scegliendo via via quali agevolare e quali lasciare indietro; abbiamo i topi domestici, nei quali le femmine decidono di provocarsi un aborto spontaneo, riassorbendo i loro embrioni, quando percepiscono l’odore di un maschio straniero potenzialmente pericoloso; osserviamo i maschi di scimmia lagur commettere infanticidio rispetto ai figli dei maschi concorrenti, maschi infanticidi con i quali le madri scelgono di accoppiarsi pur di assicurarsi una nuova prole al sicuro da altre uccisioni; negli alveari l’ape regina, tramite un segnale olfattivo, ordina alle api operaie – sue figlie – di bloccare il loro sistema riproduttivo, pena la cannibalizzazione, al fine di assicurare alla sua nuova prole il nutrimento e il sostegno di tutte le femmine dell’alveare.
Tutti i casi citati – e ce ne sarebbero molti altri – mettono in crisi l’ancora troppo diffuso pregiudizio secondo cui una madre sarebbe sempre pronta al sacrificio e all’abnegazione di sé a favore dei propri figli; esistono certamente alcune madri altruiste ma non sono la regola a livello evolutivo, anzi sono una rarità e non sono di certo un paradigma universale in natura.
La maternità è, a livello di selezione naturale, qualsiasi cosa una madre fa per garantire la continuità genetica nelle generazioni successive; tuttavia, ciò che una madre si impegna a fare con la prole dipende dalle circostanze e, nel caso di animali cooperativi e sociali, dal sostegno che gli altri membri del gruppo le possono o meno dare.
La maternità, con tutto quello che la precede e ne consegue, stravolge le femmine almeno su due fronti: a livello fisico con le alterazioni ormonali, la ridistribuzione dei tessuti e l’esaurimento di alcune risorse di macronutrienti; a livello identitario mutando le possibilità, priorità e prospettive, anche sociali, che fino ad ora poteva avere.
Le femmine si sono evolute per prediligere la qualità della vita della prole, a scapito della quantità di figli, perché a differenza dei maschi l’impegno delle madri nella riproduzione è nettamente superiore: l’investimento maschile consiste nell’eiaculazione, mentre quello femminile riguarda un processo più lungo e complesso che dall’ovulazione, passa per la gestazione e il concepimento.
La diversità di contributo acquista significato se ragioniamo in termini evolutivi: un maschio una volta terminato l’atto sessuale può immediatamente riprodursi con altre femmine senza che il suo corpo si modifichi e senza che la sua sopravvivenza dipenda da nuove abitudini e risorse. Una femmina, invece, una volta gravida vive un processo lungo che la coinvolge interamente, rendendola biologicamente impossibilitata a riprodursi in modo immediato.
È chiaro quindi che la diversa biologia e conformazione dei sessi rende indispensabile sottolineare come le femmine investano, a livello biologico, molto più dei maschi nella riproduzione e genitorialità.
Inoltre, la scelta femminile ha delle implicazioni evolutive profonde e questa scelta è sempre condizionata da un’infinità di fattori che spaziano dal contesto materiale a quello sociale, fattori che, a livello evolutivo e anche sociale, condizionano le scelte attive delle madri rispetto alla prole.
Una madre, a scapito di quanto spesso si crede, adatta il proprio investimento materno in linea con le condizioni ecologiche in cui viene a trovarsi, decidendo attivamente quanto spendersi e per quanti figli al fine di garantire un successo riproduttivo individuale e non la sopravvivenza della specie come si riteneva fino a pochi decenni fa.
Questa breve panoramica su alcune delle tipologie di maternità animale vuole esse un invito a ripensare, in maniera critica, ai nostri pregiudizi insiti nel concetto di maternità.
Non solo la biologia non determina le scelte animali – ivi quelle umane – ma il tanto acclamato istinto materno è forse più un desiderio tipico delle culture patriarcali che una realtà. Nel regno animale ciò che determina la relazione madre-figlio non è una supposta natura materna dedita al sacrificio, quanto piuttosto un calcolo tra le circostanze e i bisogni di madre e figli, che spesso (sfortunatamente) non combaciano.
La cultura patriarcale, e la scienza, hanno osservato a più riprese gli animali per legittimare le loro pretese di controllo sulla riproduzione femminile e naturalizzare un concetto di maternità legato al sacrificio e relegato alla sfera privata.
Le donne sono sempre state assunte naturalmente come la cultura patriarcale voleva che fossero: passive e limitate alla corporeità, ma guardando al resto dei viventi possiamo riappropriarci della narrazione sulla donna e sulla maternità guardandoci – e mostrandoci – come attive e selettive.
Bibliografia:
Carl Nilsson Linneau, Systema Naturae, Theodorum Haak, 1735.
Jean Emmanuel Gilbert, Les chefs d’oeuvres de Monsieur de Sauvages, Nabu Press 2011.
David Lack, The Life of the Robin, Witherby; First Edition 1943.
Yuki-Maru Sugiyama, On the social change of Hanuman langurs, Springer Nature, 1965.
Sarah Blaffer Hrdy, Mother Nature, Chatto and Windus, 1999.
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