In che termini è possibile parlare del corpo, ai giorni nostri? Cosa significa parlare di “corpo femminile”, di “donna”, alla luce delle lotte e delle rivendicazioni in atto? E che relazione intrattengono queste due domande, o meglio, le risposte a queste due domande, con l’esigenza di giustizia sociale in senso ampio?
Oltre la periferia della pelle. Ripensare, ricostruire e rivendicare il corpo nel capitalismo contemporaneo di Silvia Federici ci insegna che parlare di corpo, oggi, implica inevitabilmente parlare di potere.
Inforcando per un momento le lenti del marxismo, ci rendiamo facilmente conto di come le donne e gli uomini che compongono la società non sono solo produttori di beni, ma anzi, coi propri corpi, sono l’unico e solo generatore di valore. È l’essere umano la fonte che genera ricchezza, e all’umanità si applica la stessa legge dell’accumulazione primitiva che vale per il capitale: per sopravvivere, il capitalismo ha bisogno di capitale umano espropriato. Da ciò deriva che, essendo le donne a generare materialmente la fonte della ricchezza, è proprio la maternità la base su cui l’Occidente ha potuto accumulare surplus di capitale. Il corpo femminile è così oggetto di un duplice processo di meccanizzazione: sfruttato sul lavoro e in casa, ed espropriato in quanto reso mero oggetto di riproduzione. Dato che le dimensioni della popolazione mantengono una grande rilevanza politica, la procreazione ha uno spiccato valore economico.
Inno alla non separazione, elogio dell’olismo, il volume di Federici ci consente di aprire gli occhi sulla complementarietà delle lotte: agire per l’emancipazione rispetto al controllo dei nostri corpi è in strettissimo rapporto con la protesta contro lo sfruttamento capitalista, perché è il capitalismo che li pone sotto un rigoroso sistema di dominio. Pensiamo al sogno della massimizzazione della giornata lavorativa, allo stato di tensione e stanchezza perenni nel quale versiamo, alla mancanza di sicurezza ormai istituzionalizzata, e pensiamo alla situazione femminile. Molto più indipendenti rispetto alla figura maschile e al contesto familiare che in passato, le donne hanno guadagnato autonomia, ma ad un prezzo molto alto: nulla è cambiato da un punto di vista lavorativo, il lavoro domestico viene svolto di notte, nei fine settimana, vivendo con preoccupazione e senso di colpa il non poter passare del tempo con i figli.
In questa militarizzazione della vita quotidiana, secondo Federici la psicologia regge il gioco al potere, perché insegna la resilienza e ignora la violazione quotidiana del nostro corpo.
Si è fatta carico di contenere i danni causati dal sistema alla psiche dei lavoratori, attribuendo a una realtà pre-esistente e istintiva patologie intrinseche all’organizzazione del lavoro, e non fa altro che normalizzare il lavoro alienante.
Non possiamo, allora, riprendere possesso del nostro corpo senza cambiare le condizioni materiali nelle quali viviamo. Questo è anche il fulcro delle lucide critiche che Federici muove tanto ai movimenti femministi degli anni ’70 quanto al post strutturalismo di Butler. Lodati per il contributo fornito alla lotta, i primi, ma ritenuti carenti di proposte e strategie concrete, e soprattutto colpevoli di non aver unito le battaglie per i diritti alle rivendicazioni di benessere sociale. Avversato, il secondo, perché eliminare le donne come soggetto politico, appellandosi alla visione secondo la quale corpi e generi sono il prodotto di pratiche discorsive e performative, significa negare la possibilità di una identificazione politica e sociale, e dunque conduce inevitabilmente alla sconfitta.
Ma in che senso questo libro è un elogio all’olismo?
Effettivamente, estendendo l’orizzonte del discorso che esso si propone di affrontare, emerge come Federici voglia renderci attentə alla necessità di considerare la lotta ben oltre il confine del nostro corpo. Esso è, infatti, un corpo in espansione, in continuità con gli altri organismi viventi, con gli alberi, i fiumi, gli animali. Lo diceva già Marx: la natura è il nostro corpo inorganico. Nelle società precapitalistiche, le popolazioni erano molto più in sintonia con la natura, erano convinte di avere esperienze extra corporee, di comunicare con gli animali, di poter essere in più luoghi nello stesso momento. E non tutti questi poteri erano immaginari.
C’è, insita nel nostro corpo, una struttura di capacità e di desideri formatasi tramite anni e anni di materiale evolutivo. Il capitalismo, forte della volontà di trasformarci in meri oggetti da far funzionare per il lavoro, ci ha separato dalla terra, rendendo l’attività lavorativa indipendente dal susseguirsi delle stagioni, e ci ha resi maniacalmente fissati con lo spazio e con il tempo, una delle dinamiche più persistenti delle quali si serve per appropriarsi del corpo.
Allora, conclude la filosofa:
«I nostri corpi hanno ragioni che dobbiamo imparare a conoscere, riscoprire, reinventare. Dobbiamo ascoltare il loro linguaggio come via per la salute e la cura. Allo stesso modo dobbiamo ascoltare il linguaggio e i ritmi della natura come via per la salute e la cura della terra. Il potere di influenzare ed essere influenzati, di muoversi ed essere mossi, capacità irriducibile che si esaurisce solo nella morte, è costitutiva del corpo. Esiste una politica immanente in esso: la capacità di trasformarsi, di trasformare gli altri, e di cambiare il mondo.» (1)
Grazie a D editore!
(1) S. Federici, Oltre la periferia della pelle. Ripensare, ricostruire e rivendicare il corpo nel capitalismo contemporaneo, D editore, Roma, 2023, p.212.
-
Patriarcato e genitorialità
8 Marzo 2021 -
Chi stabilisce le regole della normalità?
25 Febbraio 2019 -
Scopami
27 Novembre 2020
Filosofemme è un progetto che nasce dal desiderio di condividere la passione per la filosofia tramite la figura delle filosofe.
Quest'opera è distribuita con Licenza Creative Commons Attribuzione - Non commerciale - Non opere derivate 4.0 Internazionale.
Privacy PolicyCookie Policy