Playing God: la solitudine dell’uomo “gettato”

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Gli appassionati di animazione farebbero bene a recuperare Playing God, un piccolo gioiello in stop motion presentato quest’anno a sic@sic, la sezione dedicata ai corti della Settimana della Critica della Mostra del Cinema di Venezia.

Si tratta di un film dall’estetica gotica e grottesca che, attraverso delle statuine in plastilina, racconta un dissidio mai placato: quello tra l’artista e la sua opera, ma anche quello tra il creatore e la sua creatura.

Playing God si apre in un buio laboratorio, dove un artista è intento a modellare la scultura in argilla rossa di un uomo.

L’ennesima, come possiamo intuire dalla quantità di statuine derelitte che popolano il tavolo da lavoro, e che proprio al pari delle altre verrà accantonata dal suo creatore perché mai ideale, mai abbastanza perfetta.

Nonostante la scultura si aggrappi con tutte le sue forze al suo creatore, è destinata all’abbandono, all’oblio, e quando cede all’autodistruzione, viene accolta dalla comunità di sculture malmesse che, proprio come lei, sono state rifiutate.

Diretto da Matteo Burani, scritto da Matteo Burani e Gianmarco Valentino e animato da Arianna Gheller, Playing God ribalta la prospettiva del dr. Frankenstein, mettendo lo spettatore nei panni della creatura: un essere gettato nel mondo e abbandonato, giudicato nell’impossibilità della propria perfezione, un essere che possiamo com-patire, perché fatto di carne proprio come noi.

La dimensione della carne emerge con sorprendente vividezza dal sonoro del film, che sfruttando la plasmabilità della plastilina echeggia il mondo organico, il contorcersi dei corpi e delle viscere. «Il mio corpo è il perno del mondo» (1), scriveva Merleau-Ponty, e la sua lezione sembra prendere vita proprio nelle sculture di Playing God: la dimensione della carne è orrorifica, spaventosa, sanguigna. Ma è anche quella che apre alla vulnerabilità. 

È proprio per il tramite della carne, infatti, che l’individuo si scopre plurale: la creatura, protagonista del film, è sì lo specchio delle aspettative che piegano ogni essere umano, il corpo imperfetto abbandonato da un Dio troppo perfetto, o forse solo da un artista incontentabile.

Ma ha in sé anche la possibilità della rinascita.

Nella mano tesa dell’Altro, fatta di materia dolente proprio come la sua, la creatura trova il suo posto in una comunità di abbandonati: cessa di essere uno per diventare tanti, tutti accomunati dallo stesso destino, ma liberi di sganciarsi dal proprio piedistallo.

M. Merleau-Ponty, Fenomenologia della percezione, 1945, p. 130.