Guardare “The Substance” con gli occhi di Naomi Wolf

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⚠️ Spoiler alert: l’analisi contenuta in questo articolo contiene spoiler della pellicola The Substance ⚠️

«Hai mai sognato una versione migliore di te stessa? – più giovane, più bella, più perfetta?»

Quando nel 1990 Il mito della bellezza veniva pubblicato per la prima volta, Naomi Wolf scatenava un terremoto destinato a mettere in discussione la libertà che le donne credevano di aver finalmente ottenuto dopo anni e anni di lotte.

Il mito della bellezza subentrava a quelli della domesticità e della maternità, che ormai erano stati sconfitti dal movimento femminista: «Era necessaria un’ideologia che facesse sentire le donne di minor valore per contrastare il modo in cui il femminismo le aveva rafforzate»(1).

Come tutti i libri che si occupano di critica della società, anche quello di Wolf ha la capacità di poter essere riletto molto tempo dopo attraverso lenti diverse, riuscendo comunque a rimanere straordinariamente attuale.

Sarà proprio questo il suo scopo: instaurare con The Substance, ultima fatica della regista Coralie Fargeat, un dialogo che ci aiuti a capire come la mistica della bellezza sia un problema che ci riguarda ancora oggi.

Iniziamo subito.

La protagonista è la star Elisabeth Sparkle che, come suggeriscono l’Oscar vinto e il posto nella Hall of Fame a suo nome, è una donna di grande successo, conosciuta e amata.

Lo stesso cognome rimanda a una scintilla, a un luccichio: Elisabeth è una stella a tutti gli effetti.

Da anni conduce un programma di aerobica sulla Network TV, che però non riscuote più l’audience di un tempo, aspetto che il signor Harvey, ovvero uno dei responsabili della compagnia, imputa al suo essere “una vecchiaccia”.

Infatti, c’è qualcosa che non può più essere ignorato: Elisabeth sta invecchiando e alla società televisiva serve una donna più “giovane e sexy” che la rimpiazzi.

Fin dai primi minuti notiamo come l’avanzare dell’età interessi donne e uomini in maniera diversa e ce lo spiega molto bene la stessa Wolf, che sostiene come gli uomini «invecchiano meglio solo in termini di status sociale. L’equivoco deriva dal fatto che i nostri occhi sono abituati a vedere l’età come una pecca sul volto femminile e come segno di carattere su quello maschile»(2).

Il signor Harvey è un uomo sulla settantina, con i suoi capelli bianchi e le sue rughe. Non è nemmeno particolarmente brillante, ma ha un asso dalla sua: è uomo e come tale gli anni che si porta addosso sono la dimostrazione della sua saggezza e del suo potere.

Al contrario, nonostante Elisabeth rispecchi alla perfezione i canoni di bellezza che la società le richiede e sia una donna di successo, i segni del tempo che passa pesano come un macigno sulla sua persona e lei ne è consapevole.

Ne è talmente consapevole che decide di iniziare il suo percorso con “la sostanza”, ovvero un liquido dal colore verde che iniettato una sola volta porta il DNA ad andare incontro a una nuova divisione cellulare, creando così un’altra versione di se stess*.

Quando ritira la sua prima dose le istruzioni nel kit sono chiare: attivare una sola volta, stabilizzare tutti i giorni ed effettuare lo switch una volta a settimana, senza eccezioni.

Una sola la regola da tenere a mente: la matrice Elisabeth e l’alter ego Sue, che nascerà da uno squarcio lungo la spina dorsale della prima dopo l’iniezione, sono una cosa sola. 

Una volta avvenuto lo switch vediamo la giovane Sue che si ammira allo specchio accanto al corpo lacerato di Elisabeth: da una parte abbiamo la freschezza, la pelle lucida e senza una grinza, dall’altra, a solo qualche metro di distanza, un corpo che giace sul pavimento, sanguinante e inerme. La contrapposizione tra giovinezza e vecchiaia, tra perfezione e difetto è presente da subito e diventerà presto uno dei fulcri del film.

Se la prima settimana procede secondo i piani, nella seconda Sue, ormai diventata la nuova stella della Network TV, effettua lo switch con un giorno di ritardo, causando un’alterazione nel corpo di Elisabeth, che al suo risveglio si ritrova con l’indice destro di una donna anziana e malata.

La regola fondamentale, la bilancia dei sette giorni non è stata rispettata e il tempo in più che è stato usato da una parte è perso per sempre dall’altra, senza possibilità di rimedio. La matrice e l’alter ego sono la stessa cosa, ma solo dal punto di vista corporeo: è vero che gli sbagli dell’una si ripercuotono sul corpo dell’altra, ma le due donne sono chiaramente due persone diverse, che vivono la loro vita a settimane alterne e che non hanno potere sulle decisioni della controparte.

L’astio tra le due continua a crescere fino a sfociare in un vero e proprio odio reciproco: Sue disprezza il corpo di Elisabeth, critica le sue abitudini e cerca di cancellare ogni segno della sua presenza all’interno della casa; dall’altra parte Lizzie invidia la giovinezza, la bellezza e il successo di Sue, sentendosi nettamente inferiore.

In una delle scene più strazianti vediamo Elisabeth truccata e pronta per uscire a cena, a cui però basta qualche secondo di troppo passato a scrutarsi allo specchio per sentirsi inadeguata.

La frustrazione e la rabbia montano dentro di lei fino a quando non si specchia un’ultima volta prima di stropicciarsi il viso, sbavando il trucco e spettinando i capelli. Naomi Wolf scrive che «l’autoindagine conduce all’automortificazione»(3) e questo è spaventosamente vero se pensiamo non solo a quanto spazio occupano le scene allo specchio in The Substance, ma anche a tutte le volte che osserviamo il nostro riflesso alla ricerca anche della più piccola imperfezione.

Ma il vero nemico di Elisabeth e di tutte noi non è semplicemente l’analisi ossessiva che ogni giorno riserviamo al nostro corpo, ma il confronto inevitabile che scatta con le altre donne:

«È doloroso per le donne parlare di bellezza, perché sotto il dominio del mito ogni corpo femminile viene usato per nuocere a un altro. Il nostro viso e il nostro corpo diventano strumenti di punizione nei confronti di altre donne, spesso usati senza il nostro controllo e contro la nostra volontà» (4).

Il mito della bellezza crea un circolo vizioso in cui ogni donna è costretta a odiare il proprio corpo e a invidiare quello di un’altra, dando vita a una macchina del dolore che si autoalimenta.

In The Substance questo aspetto è estremizzato attraverso la raffigurazione di due donne appartenenti a due generazioni diverse: la donna vecchia disprezza la giovane e viceversa, creando così il perfetto meccanismo di cui si serve il mito per dividere le donne nella guerra che le vede vittime.

Perché, alla fine, «il mito della bellezza non riguarda affatto le donne, ma gli uomini e il potere» (5).

Minando l’autostima delle donne e alimentando la competizione tra di loro, il mito le porta a perdere di vista il vero nemico, spingendole a pensare a modi di reinventarsi che le facciano sentire all’altezza.

Nonostante Sue abusi del tempo per ben tre mesi riducendo Lizzie a una donna anziana, calva e gobba e nonostante rappresenti fin dall’inizio la sua condanna, è lei ad avere il coltello dalla parte del manico: incarna l’unica possibilità di riscatto per Elisabeth, ormai abbandonata e dimenticata da tutti e la illude di poter essere lo strumento attraverso cui realizzare ogni suo sogno.

La solitudine gioca un ruolo fondamentale nel film: Elisabeth è alla fine della sua brillante carriera, eppure non vediamo alcun legame significativo, nessun amico o familiare con cui possa confidarsi. La protagonista è sola e, lo sappiamo, il mito della bellezza non si può sconfiggere per conto proprio: per sbarazzarcene «ogni donna ha bisogno del sostegno di molte altre» (6).

Quando nella scena finale ho visto quello che rimaneva del corpo mostruoso di Elisabeth trascinarsi sulla sua stella nella Hall of Fame per poi liquefarsi sentendo in lontananza le voci di chi un tempo la acclamava e vedendo tanti piccoli coriandoli d’oro caderle addosso, mi sono chiesta se fosse quello il destino che attende ognuna di noi.

Saremo sempre costrette a trasformarci in una sorta di Dorian Gray disposto a qualsiasi cosa pur di mantenere bellezza e giovinezza?

È possibile una via di liberazione?

La gabbia in cui la mistica della bellezza ci tiene prigioniere è ancora solida, ma rispetto agli anni Novanta è indubbio che qualche sbarra siamo riuscite a forzarla. La critica femminista ha formulato diverse teorie di emancipazione e una di queste arriva proprio da Naomi Wolf, che ci ha lasciato una traccia da percorrere: 

«Non possiamo colpire direttamente le immagini, ma possiamo privarle del loro potere. Possiamo distogliere lo sguardo da esse, guardarci a vicenda e trovare immagini alternative di bellezza in una subcultura femminile; andare in cerca delle commedie, della musica, dei film che illuminano le donne in tre dimensioni; trovare le biografie di donne, la loro storia, le eroine che in ogni generazione sono state sottratte alla vista; colmare questi terribili vuoti. Possiamo sradicare noi stesse e le altre dal mito , ma solo se siamo disposte a cercare veramente delle alternative e a sostenerle» (7).

Note:

(1) Naomi Wolf, Il mito della bellezza, Mondadori, Milano, 1991, p.29.

(2) Ivi. p. 129.

(3) Ivi. p. 138.

(4) Ivi. p. 386.

(5) Ivi. p. 23.

(6) Ivi. p. 384.

(7)Ivi. p. 376.

Bibliografia:

Naomi Wolf, Il mito della bellezza, Mondadori, Milano, 1991.

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