Riconsiderare il margine: bell hooks e Gayatri Spivak a confronto

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Il femminismo da (almeno!) l’ultimo decennio si è trovato certamente a dover fare i conti con le istanze mosse dai gruppi femministi non bianchi che hanno fatto della loro posizione di marginalità – una marginalità che è tale solo se vista da una prospettiva che considera l’Occidente l’unico punto di osservazione possibile – una dimensione tanto teorico-politica quanto un luogo da cui lottare per poter parlare ed esprimersi.

In questo orizzonte di pensiero sono certamente centrali due pensatrici: bell hooks e Gayatri Chakravorty Spivak.

Seppure da prospettive differenti e con esiti non sempre coincidenti, entrambe hanno sentito l’esigenza di denunciare l’egemonia del femminismo bianco e occidentale per cercare di rivolgere lo sguardo, nell’orizzonte teorico di bell hooks, alla posizione marginale delle donne nere e, per Spivak, alla donna subalterna. 

L’elemento che accomuna le riflessioni delle due pensatrici è il desiderio di criticare la visione eurocentrica che determina le categorie e i paradigmi attraverso cui si definisce l’assetto mondiale, sulla base della quale si traccia la linea di separazione tra il Nord e il Sud del pianeta. Nonostante le due pensatrici siano accomunate dal medesimo desiderio di critica verso l’approccio epistemologico occidentale, è inevitabile notare come i due discorsi si accavallino vicendevolmente (1).

Se per bell hooks essere al margine significa «appartenere, pur essendo esterni, al corpo principale» (2), per Spivak la questione trascende il collocarsi o meno sulla marginalità degli spazi metropolitani del Nord del mondo, bensì è inerente alla condizione da lei definita di subalternità. La subalterna, infatti, non risiede sul margine, ma è comunque parte della società, anche se del tutto esclusa dalle dinamiche sociopolitiche (3).

Chi sta al margine ha un vantaggio epistemico perché conosce il centro da una posizione de-centrata. 

La differenza teorica tra le due autrici si ripercuote altresì sul piano prettamente geografico, infatti, se per Spivak la subalternità esiste esclusivamente entro i confini del Sud del globo, la marginalità trattata da bell hooks rimanda a una diacronicità tra Settentrione e Meridione, Occidente e Oriente.

Le due pensatrici si trovano a concordare sull’importanza della pedagogia e dell’insegnamento che, se correttamente esercitati, sono la condizione necessaria per la diffusione delle proprie riflessioni.

Entrambe, nonostante siano due donne non bianche e provenienti da paesi non occidentali, riescono a giungere alle aule accademiche degli Stati Uniti.

Questo dato risulta particolarmente significativo in quanto è proprio il luogo del potere accademico, bianco e occidentale che – pur nella consapevolezza dell’ambiguità del ruolo di docenti – a divenire il punto privilegiato che permette di teorizzare e parlare. Ciò è ancora più chiaro se si considera che, come si accennava, sia per Spivak che per bell hooks l’insegnamento rappresenta il medium, lo strumento, con cui poter disvelare i rapporti di potere soggiacenti al sistema culturale, sociale e politico dominante.

Per Spivak, infatti, l’insegnamento consiste nella capacità di far uso dell’immaginazione, è nel riflettere e configurarsi le popolazioni native dei paesi subalterni che avviene la presa di coscienza di non essere «così eccellenti da poter aiutare chiunque nel mondo come se fosse semplice» (4). Nella prospettiva di bell hooks insegnare il margine significa offrire allə studentə, in particolar modo ad afroamericanə, uno strumento con cui lottare e resistere; le aule diventano il limite da trasgredire, il luogo da trascendere per poter sperimentare la libertà. La riflessione sul potere dell’insegnamento non può che condurre all’analisi dell’uso della parola intesa quale mezzo principale di diffusione delle idee.

Per bell hooks, che denuncia la propria condizione di nera emarginata fin dalla tenera età e poi, negli anni Settanta, tra le fila del movimento femminista che non presta attenzione alle esigenze delle sorelle nere, la parola assume una valenza fondamentale: è l’unico modo grazie al quale è possibile far notare la propria presenza.

Contrariamente Spivak sottolinea come la parola sia negata alle donne subalterne, le quali non possono parlare (e se parlassero non è certo che verrebbero ascoltate), bensì sono solo “ventriloquizzate” da chi ha ritenuto, dispoticamente, di poter parlare per loro; la subalterna non si dice, può solo essere detta. Tuttavia, tale differenza di approccio all’uso del linguaggio può essere compresa sulla base di quanto sostenuto dalla stessa Spivak, la quale ritiene che la subalternità non sia un margine, simile a quello teorizzato da bell hooks. La subalterna è esclusa dal discorso dominante cui, invece, ha accesso la donna che sta al margine, ma la condizione di subalterna si può vivere solo silenziosamente (5). 

La domanda che, dunque, le due autrici ci pongono è: a partire da queste premesse possono nascere alleanze strategiche?

Quale sorellanza si può ipotizzare di costruire tra le soggettività al margine nel Nord e le subalterne del Sud del mondo?

La necessità che spinge nella direzione di cercare una risposta a questi interrogativi è stata ben argomentata da Adrienne Rich con la formulazione del concetto di «politica del posizionamento» (politics of location) (6) per cui: «tu non puoi parlare per me (You cannot speak for me). Io non posso parlare per noi (I cannot speak for us)».

Il progetto di un’alleanza planetaria comporta la predisposizione all’incontro con un’alterità radicale e necessaria.

Questo ci permette di riposizionare la condizione della subalternità nella geografia del margine, per intrecciarla con altre esperienze di dominazione, senza però dimenticare che non tutti i margini si equivalgono. Ed è in questo territorio multiforme della marginalità, dove si può parlare o essere costrette al silenzio, insegnare o imparare dal basso, desiderare, lottare, uscirne sconfittə o vittoriosə, che si può costituire un punto di partenza per tracciare delle connessioni.

  1. L. Ellena, “Dai margini al centro. Femminismo, teoria queer e critica postcoloniale”. In World Wide Women. Globalizzazione, generi e linguaggi a cura di Liliana Ellena, Leslie Hernádez Nova, Chiara Pagnotta, vol. 4, CIRSDe, Torino 2012, p. 103.
  2. bell hooks, Elogio del margine. Ed. it a cura di M. Nadotti, Feltrinelli, Milano 1998, p. 67.
  3. J.M.H. Mascat, in Subalterne e marginali. You cannot speak for me. I cannot speak for us, in World Wide Women. Globalizzazione, generi e linguaggi a cura di Liliana Ellena, Leslie Hernádez Nova, Chiara Pagnotta, vol. 4, CIRSDe, 2012, p. 163.
  4. G.C. Spivak, Risistemare i desideri, attendere l’inatteso, Aut Aut, n°333, 2007, p. 84.
  5. G.C. Spivak, Critica della ragione postcoloniale, Meltemi, Roma 2004, p. 168.
  6. A. Rich, Notes toward a politics of location, in Diaz-Diocaretz, M.; Zavala, I. (eds), Women, feminist identity, society (1980). John Benjamins Publishing Company, Amsterdam 1984.
  7. Ibidem.