Il mantra rimane sempre quello: il personale è politico.
Non a caso è questo il sottotitolo di Aborto, saggio di Pauline Harmange che – poggiandosi sull’esperienza personale della scrittrice – diventa un monumento politico alla memoria di chiunque abbia vissuto una IVG (Interruzione Volontaria di Gravidanza).
Come tutti i monumenti, questo libro non è neutro.
Anzi, abbraccia la complessità culturale di un tema tanto sensibile. Harmange sa bene che la vera libertà di espressione sta nel fare ciò che si vuole fare – scrivere della propria esperienza personale in tutta la sua difficoltà – e non ciò che si deve fare – cedere al silenzio più totale oppure rimanere monolitiche nel proprio ruolo di femminista che pur di difendere questo diritto non ne analizza le ombre.
Ad esempio, essere pro-choice non significa essere immuni al possibile scossone emotivo che un aborto potrebbe portare – già solo per ciò che affronta il corpo.
Oppure, fermo restando che debba essere chi porta la gravidanza a scegliere per sé, quale ruolo possono avere gli uomini cis?
Come si chiede Harmange «Escludere totalmente gli uomini dal dibattito sull’aborto non significa continuare a proteggerli e sollevarli da ogni responsabilità?» (1).
Il valore delle parole della scrittrice sta proprio nel non poter essere incasellate.
Visto lo stato di cose attuale, in cui l’aborto, laddove è garantito, è comunque sotto minaccia, scegliere di discuterne oltre gli slogan (“Il corpo è mio e decido io”, “No uterus, no opinion” e così via) è un atto di coraggio, che si fonda su una consapevolezza ben precisa.
Il problema che dobbiamo affrontare collettivamente non è solo il diritto all’aborto in sé: è anche il parlarne.
Altrimenti:
«L’aborto non esiste. Non trova spazio nel dibattito pubblico. Di tanto in tanto i media ne parlano […] Durante questo intermezzo mediatico, nel clamore, si sente tanto chi difende il diritto di abortire liberamente senza vergognarsi, quanto chi lo condanna. Insomma, nonostante i tentativi da parte delle femministe, il tema non ha presa» (1).
La storia ne ha fatto (giustamente) una questione di schieramenti, di prese di posizione.
Ma che spazio trovano le voci di chi ha bisogno di condividere, sfogare, urlare?
«Per poter parlare di aborto insieme, in maniera adeguata, dovremmo sentire tutt3 nel profondo che si tratta di un argomento non negoziabile – e quindi sentirci in uno spazio sicuro con le altre persone, con chiunque incontriamo sulla nostra strada, in cui raccontare le nostre verità senza che vengano messe in discussione» (2).
Qui Pauline Harmange parla della sua, di verità. Il suo desiderio di maternità esiste, ma quello non era il momento giusto.
Le due cose possono andare di pari passo: abortire e voler diventare madre.
È un posizionamento legittimo, così come lo è ogni altro fondato sull’autodeterminazione del proprio corpo e della propria vita. Se si parte da questi due principi, non esistono scelte sbagliate. Esistono, al massimo, storie ed esperienze che ci si vergogna di raccontare.
Ma se c’è vergogna, significa che non c’è davvero libertà.
Grazie Mimesis Edizioni!
- P. Harmange, Aborto. Il personale è politico, Mimesis Edizioni, Sesto San Giovanni (MI), 2023, p. 9
- Ivi, p. 53.
- Ivi, p. 90.
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