Volevo essere un duro: un inno alla fragilità e alla normalità

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«Volevo essere un duro è il titolo della canzone che a febbraio porterò al Festival di Sanremo. Parla di quanto il mondo ci vorrebbe infallibili, con la solidità dei sassi e la perfezione dei fiori, senza dirci però che tutti i fiori sono appesi a un filo. Parla (ammesso che questa canzone abbia una bocca) del fatto che sia normale diventare altro rispetto a ciò che si sognava» (1).

A dicembre 2024 Lucio Corsi presentava così la propria canzone portata  al Festival di Sanremo. 

Una canzone che sta riscuotendo successo nella critica e che risulta essere in controtendenza rispetto alle hit più ascoltate in Italia in questo momento. 

Al di là dei testi ricercati ma allo stesso semplici delle canzoni di Corsi, che portano con sé i tratti tipici della tradizione cantautoriale più alta, c’è qualcosa che lo distingue dai generi maggiormente di tendenza. In un mondo di trapper che giocano a fare i duri a tutti i costi, parlando di violenza fisica, sesso, droga e f**a e/o di cantanti dai fisici perfetti e muscolosissimi, Lucio Corsi parla di fragilità.

Lo fa con la sua figura minuta, spesso truccato, capelli lunghi, con uno stile un po’ androgino tra Camerini e Bowie. 

«Non sono nato con la faccia da duro
Ho anche paura del buio
Se faccio a botte le prendo
Così mi truccano gli occhi di nero»

Una boccata di aria fresca in un mondo di tossicità che, come dice lui, ci vuole infallibilə e fortə a tutti i costi. Questa pretesa pesa su tuttə, ma sicuramente – in modo particolare – sugli uomini. 

È più accettato vedere una donna essere fragile, commuoversi, mostrare le proprie emozioni. Molto meno lo è per gli uomini, da cui ci si aspetta un controllo di se stessi che li vorrebbe più simili a quello di un robot:

«Volevo essere un duro
Che non gli importa del futuro
Un robot
Un lottatore di sumo»

Una canzone orecchiabile che in modo forse non troppo voluto (ma in parte, come suggeriscono le parole con cui abbiamo aperto l’articolo, sì) tenta di sconfiggere stereotipi e imposizioni in cui siamo tuttə imbrigliatə. 

Ne abbiamo parlato molte volte: la società patriarcale sopravvive grazie ai ruoli rigidi che assegna. Se sei donna alcune cose ti sono concesse, alcune no. Se sei uomo, idem (2) (ne abbiamo parlato anche qui).

Allo stesso modo la società capitalistica, così strettamente legata a quella patriarcale, pretende dalle persone l’eccellenza, ci chiede di essere sempre performantə e di “diventare qualcuno”. Se non hai successo, non sei nessuno, diventi una triste persona qualunque, in questa terribile logica. Devi essere speciale a tutti i costi.

Volevo essere un duro è un invito ad essere normale, nel senso che non è necessario essere “fenomenə” e/o delle persone affermate. È curioso che, spesso, proprio ə “normalə” che non rientrano nelle logiche capitalistiche siano considerate stranə: curioso, ma coerente alla narrazione intrinseca alla società contemporanea, dove chi non risponde alle caratteristiche richieste dalle etichette sociali è quasi un essere alloctono.   

«Quanto è duro il mondo
Per quelli normali»

Gli stereotipi, che nascono dal pensiero veloce (3), sono utili per sopravvivere nella società della performance, che richiede tempi strettissimi, ritmi disumani, tutt’altro che naturali e fisiologici. Hanno, però, un enorme difetto: ci imbrigliano

Essendo rigidi per natura, gli stereotipi limitano la nostra libertà, enormemente. La libertà di essere noi stessə, di vivere una persona o un evento in modo profondo e vero. Andando oltre, ragionando, cercando di approfondire conoscenze, impersonando ruoli che ci imponiamo al fine di rientrare nello stereotipo, ci priviamo della libertà di essere coerenti ai nostri desideri e non ci concediamo una conoscenza più intima e intensa dell’Altrə

Così facendo, in qualche modo non riconosciamo l’unicità che chiunque possiede.

Essere unicə, però, non significa essere “speciale”, nell’accezione più competitiva e ambiziosa della parola, come vuole la logica capitalistica che lascia indietro chi “non sta al passo”. In questo sentirsi “superpersone” vediamo i danni tutti i giorni sempre più frequentemente «senza dirci però che tutti i fiori sono appesi a un filo».

Guardiamoci dentro, liberiamoci da ciò che ci imbriglia, accettiamo le nostre fragilità, la nostra meravigliosa normalità e riconosciamoci.

Io, ad esempio, sono semplicemente Gloria.

«Io volevo essere un duro
Però non sono nessuno
Non sono altro che Lucio».

FONTI: 

(1) Pagina Facebook di Lucio Corsi

(2) https://www.filosofemme.it/2018/09/10/stereotipi-come-costruzione-sociale-del-maschile-e-del-femminile/ 

(3) Con pensiero veloce, lo psicologo Daniel Kahneman parlava di quel sistema di pensiero umano più intuitivo (sistema 1) che si oppone al cosiddetto sistema 2 più logico e riflessivo. Il primo è più automatico, mentre il secondo richiede uno “sforzo” in più, entrando in azione quando dobbiamo svolgere compiti che richiedono più concentrazione. Il pensiero così organizzato è molto utile all’essere umano, ma può anche essere fonte di bias e stereotipi. (D.Kahneman, Pensieri lenti e veloci, Mondadori, Milano, 2020).